“Ogni struttura ha la sua frequenza di risonanza, devi solo trovare l’accordo giusto al momento giusto”: con queste parole Stéphane (Gael Gaercìa Bernal nel ruolo della vita) proclama la sua signoria sugli oggetti, il suo dominio sulle cose inanimate, materia inerte sulla quale imprimere il segno vivificante della sua fantasia. Stéphane Miroux è Michel Gondry, ovviamente: artefice sconclusionato, sognatore inguaribile e romantico pasticcione. Ma Stéphane è tanto talentuoso nel vivificare le cianfrusaglie quanto disastroso nel concretizzare i suoi desideri. I sentimenti che lo animano lo portano a fare immancabilmente la cosa sbagliata, a prendere la decisione più inappropriata. A meno che tutto questo non si svolga in sogno: qui paradossalmente, “gondryanamente”, i resti diurni si organizzano alla perfezione sui suoi desideri, non opponendo resistenza alcuna.
Strutturato come uno studio televisivo fatto in casa, il teatro onirico è il luogo della riscossa, il palcoscenico su cui mettere in scena, rovesciandola, l’insoddisfazione del quotidiano. Il gioco è talmente appagante da prendere la mano (anche in senso letterale) fino a tracimare nella realtà: tra sonnambulismi, allucinazioni e rêverie, Stéphane confonde i livelli della sua esistenza, non solo alternandoli vorticosamente, ma addirittura contaminandoli indissolubilmente. “Casualità Sincronizzata Parallela” (Parallel Synchronized Randomness) è il concetto che in fondo sorregge L’arte del sogno, un accordo segreto e imperscrutabile tra due menti che si ritrovano inconsapevolmente a compiere le stesse operazioni.
La pellicola si insinua nella vicenda sentimentale di Stéphane e Stéphanie (un’ineffabile Charlotte Gainsbourg) con sconcertante sincerità, penetra nelle anfrattuosità più nascoste della loro relazione con inarrivabile leggerezza e riemerge acida in superficie carica di un rancore attossicante. Senza rinunciare, infine, al dono struggente e inaspettato di una carezza che rimette tutto in discussione. Almeno in sogno: anarchia del cellophane!
Alessandro Baratti
Il film si dondola in una poderosa rete di sottotesti: il personaggio assente, lo spettro paterno che macchia interamente l’intreccio, l’ansia della costruzione e la voglia di plasmare la materia (le fatue invenzioni di Stéphane sono tentativi paradossali di trasportare brandelli di sogno nella vita), l’inesistenza del sentimento come sala d’aspetto della follia, il diffuso sentore fatale (l’appuntamento Stéphane/Stéphanie, mancato perché già segnato dal fallimento, è il raccordo vero con Eternal Sunshine, lo straziante confronto Joel/Clementine sul pianerottolo). Inoltre: la concatenazione finale di gesti e situazioni, la televisione che finisce nell’acqua – chiara è la diffidenza dell’autore verso un certo intrattenimento -, la secchiata al passante, l’inno all’anarchia evoca la dolce eversione della nouvelle vague e, come punto fermo culturale (ancora), sceglie la dimensione godardiana per chiudere l’opera. Gael Garcìa Bernal combina di tutto, prestando la ridotta fisicità a una prova chapliniana, Charlotte Gainsbourg mi fa letteralmente impazzire: un canto a due voci che piange la morte dell’amore.
Emanuele Di Nicola
Oltre a queste recensioni un interessantissimo articolo sulla produzione di video musicali di Gondry lo trovate su: www.spietati.it
Strutturato come uno studio televisivo fatto in casa, il teatro onirico è il luogo della riscossa, il palcoscenico su cui mettere in scena, rovesciandola, l’insoddisfazione del quotidiano. Il gioco è talmente appagante da prendere la mano (anche in senso letterale) fino a tracimare nella realtà: tra sonnambulismi, allucinazioni e rêverie, Stéphane confonde i livelli della sua esistenza, non solo alternandoli vorticosamente, ma addirittura contaminandoli indissolubilmente. “Casualità Sincronizzata Parallela” (Parallel Synchronized Randomness) è il concetto che in fondo sorregge L’arte del sogno, un accordo segreto e imperscrutabile tra due menti che si ritrovano inconsapevolmente a compiere le stesse operazioni.
La pellicola si insinua nella vicenda sentimentale di Stéphane e Stéphanie (un’ineffabile Charlotte Gainsbourg) con sconcertante sincerità, penetra nelle anfrattuosità più nascoste della loro relazione con inarrivabile leggerezza e riemerge acida in superficie carica di un rancore attossicante. Senza rinunciare, infine, al dono struggente e inaspettato di una carezza che rimette tutto in discussione. Almeno in sogno: anarchia del cellophane!
Alessandro Baratti
Il film si dondola in una poderosa rete di sottotesti: il personaggio assente, lo spettro paterno che macchia interamente l’intreccio, l’ansia della costruzione e la voglia di plasmare la materia (le fatue invenzioni di Stéphane sono tentativi paradossali di trasportare brandelli di sogno nella vita), l’inesistenza del sentimento come sala d’aspetto della follia, il diffuso sentore fatale (l’appuntamento Stéphane/Stéphanie, mancato perché già segnato dal fallimento, è il raccordo vero con Eternal Sunshine, lo straziante confronto Joel/Clementine sul pianerottolo). Inoltre: la concatenazione finale di gesti e situazioni, la televisione che finisce nell’acqua – chiara è la diffidenza dell’autore verso un certo intrattenimento -, la secchiata al passante, l’inno all’anarchia evoca la dolce eversione della nouvelle vague e, come punto fermo culturale (ancora), sceglie la dimensione godardiana per chiudere l’opera. Gael Garcìa Bernal combina di tutto, prestando la ridotta fisicità a una prova chapliniana, Charlotte Gainsbourg mi fa letteralmente impazzire: un canto a due voci che piange la morte dell’amore.
Emanuele Di Nicola
Oltre a queste recensioni un interessantissimo articolo sulla produzione di video musicali di Gondry lo trovate su: www.spietati.it
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