Parlare della morte non è facile. Fa parte di quegli argomenti che ognuno di noi cerca sempre di sfuggire, sperando in tal modo di esorcizzarla. La nostra società, basata sulla produzione, sul benessere a tutti i costi, sul rifiuto del dolore, ci porta a non affrontare più l’idea della fine della vita, che è intrinseca all’esistenza di ogni essere umano.
Il cittadino medio di oggi non ha mai visto morire una persona. E ciò era impensabile fino al secolo scorso. Un tempo, sia la nascita che la morte avvenivano in casa ed era la gerarchia familiare che gestiva questi eventi. Oggi gli stessi eventi avvengono in ospedale ed è la gerarchia sanitaria che se ne occupa.
"Cos’è la vecchiaia in una società che si basa sulla produzione, che ha come unico modello quello del giovanilismo a tutti i costi? Ed invece in questo momento, al mondo, ci sono più vecchi di quanti ce ne siano mai stati.... Com’è che uno studente di medicina studia per sei anni, studia malattie che non incontrerà mai, studia tecniche che non applicherà mai e dedica un’ora, dua, tre ore al massimo a pensare e a discutere di morte?" L’uomo sta perdendo la cultura della vecchiaia, quella vecchiaia piena di saggezza che conservava le ultime parole pronunciate da una persona come una preziosa e insostituibile testimonianza.
Queste riflessioni ci portano obbligatoriamente ad affrontare la definizione di "malato terminale". Il malato terminale è un malato per il quale non c’è più speranza di reale recupero, dinanzi al quale l’apparato medico interrompe tutti i tentativi di guarigione, ma si limita ad alleviare la sofferenza e a mantenere la situazione in equilibrio. Purtroppo, però, questa definizione si scontra con la realtà della medicina attuale, per cui "il malato terminale è il malato che ha terminato di produrre", e questo nei termini di un insieme di "ingranaggi" ospedalieri, in cui non c’è più il medico buono o cattivo, ma tutti, inevitabilmente, considerano il malato come parte di un "processo produttivo" (di farmaci, di posti letto, di esami specialistici), e in cui tendono a fermarsi sempre meno al capezzale di quel letto, dove, ormai, "non c’è più nulla da fare".
"L’accanimento terapeutico della medicina attuale, tesa al raggiungimento di successi un tempo insperati, ha come contrappeso la scarsa considerazione di situazioni dove la risoluzione del problema non è perseguibile, almeno nei termini di efficienza, di rendimento, di risultato ottimale che viene prospettato così facilmente di fronte a determinate situazioni. Il malato non guaribile rischia di costituirsi come l’emblema di un fallimento, inaccettabile da una medicina che vive essenzialmente di successi e che, come tale, tende a ignorarlo."
L’esperienza di una malattia grave, che porta alla morte, scatena nel paziente una rete intricata di sentimenti difficili da esprimere in poche parole. Ci si imbatte in una serie di emozioni che vanno dalla rivolta alla rassegnazione, dalla speranza alla disperazione, dall’aggressività alla sottomissione. "Non si può dire se il paziente silenzioso e calmo, che accetta passivamente la routine ospedaliera stia attraversando un periodo più difficile di quello che reagisce con rabbia, impreca contro il destino e non accetta di soccombere. Ma se si riesce a conoscere profondamente la persona che sta morendo, è sempre possibile trovare un’adeguata risposta psicologica alle sue reazioni."
Le implicazioni psicologiche del processo che porta alla morte coinvolgono non solo il malato, ma tutte le persone che lo circondano, i familiari, i medici, gli infermieri. La paura del dolore e la certezza della fine imminente, creano intorno al paziente una specie di "congiura del silenzio", per cui tutti sanno, ma nessuno parla. E’ il meccanismo di difesa psicologico della negazione, che si produce proprio per l’incapacità a gestire un rapporto con una persona che non ha più un futuro nel senso comune del termine, per la quale tutto ciò che prima aveva senso, è trasformato in qualcosa di poco importante e un pericolo sconosciuto e incontrollabile lo porta verso la fine della vita. Il malato terminale, inoltre, subisce spesso una regressione, diventando dipendente dall’ambiente e con pretese infantili. Contemporaneamente diventa aggressivo proprio con i familiari che gli stanno attorno, vivendo con rabbia e invidia il fatto che gli altri non siano malati e accusando l’ambiente esterno di avergli provocato tanto dolore ingiustamente.
Tali difficoltà si ripercuotono non solo sui familiari, ma anche sui medici e gli infermieri che si trovano a confrontarsi con la propria impotenza e con le proprie paure di fronte alla morte. E’ noto, infatti, che durante la visita in reparto, i medici sostino per breve tempo accanto al letto dei malati terminali e che evitino aperti scambi verbali. Purtroppo però, la teoria della comunicazione umana ci insegna che la comunicazione non verbale ha un potere comunicativo maggiore delle parole, quindi qualunque parola pronunciata dal medico per sminuire il problema viene contraddetta dalla mimica, molto più esplicita e diretta.
Usando le parole di un medico, quando si pronuncia la nota frase "non c’è più niente da fare", invece, ci sono ancora tante cose da fare. "Certo, cose poco gloriose, poco gratificanti, poco scenografiche. Cosa chiedono infatti gli ammalati di tumore in fase avanzata? Non chiedono il miracolo, non chiedono nemmeno un ruolo consolatorio, chiedono a noi che si stia loro vicino con competenza e professionalità... Tutto questo a me pare si possa riassumere con un termine che è molto banale, quello di sedersi, di prendere la seggiola e mettersi lì di fianco al letto dell’ammalato".
Tali considerazioni ci portano a riflettere sulla situazione dei nostri ospedali e sulla totale mancanza, nel servizio sanitario, di espliciti modelli di riferimento per la cura di malati terminali, che porta alla disumanizzazione della morte. Come appena evidenziato, le fasi terminali della vita sono cariche di contenuti psicologici particolarmente complessi che è importante considerare attentamente. Il servizio sanitario attuale tende, invece, a minimizzarli e a negarli allontanando il malato inguaribile dalla struttura ospedaliera.
Dal punto di vista psicologico sarebbe importante che tutti coloro che lavorano con tali pazienti potessero riflettere sul rapporto interpersonale e sulle proprie angosce relative alla morte, in modo da aiutarlo ad affrontarla e a dare un significato al suo profondo dolore. Il medico in particolare dovrebbe cogliere attraverso un uso corretto del linguaggio verbale e non verbale il modo di essere dell’altra persona, la sua situazione psicologica, capirne i bisogni e cercare di soddisfarli. La famiglia dovrebbe essere aiutata a capire le diverse richieste del suo congiunto, e a rafforzarne i sentimenti di coraggio. Non si deve dimenticare che una vita breve non è necessariamente una vita mancata e si deve permettere alla persona che sta morendo di vivere fino alla fine.
Un malato terminale sta indubbiamente morendo a molti livelli, ma allo stesso tempo è ancora vivo e come tale deve essere trattato.
(Cliccando sul titolo dell'articolo una biografia al riguardo)
venerdì 27 marzo 2009
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