Dopo una serie di difficoltà che sembravano insormontabili sono riuscita a far arrivare dalla Sormani la videocassetta (attenzione, neanche il dvd) del dilm di Percy Adlon...devo dire che alla fine ne è valsa la pena...
L'antefatto di Sugarbaby è l'incontro tra il regista e l'interprete femminile, Marianne Sägebrecht, un personaggio molto noto negli ambienti artistici di Monaco quale animatrice nel quartiere di Schwabing di una singolare compagnia, l'Opera Curiosa, formata da cantanti, saltimbanchi, attori teatrali, travestiti, mimi. Adlon la vide una prima volta nella totale immobilità dentro una piscina di un albergo di Deggendorf, dove s'era recato a girare una scena per un film televisivo (questo del rapporto solitario con l'acqua, con le relative implicazioni psicoanalitiche, torna anche in Sugarbaby). Ebbe poi modo di notarla di nuovo in una sfrenata performance di rock and roll su un palcoscenico. E dalle sovrapposte e solo in apparenza contrastanti immagini dell'attrice che deriva l'idea del film (tuttavia coadiuvato da un racconto di un'amica su una signora divenuta all'istante bellissima pronubo l'amore per un tranviere). L'altro tassello determinante dell'operazione è il contributo dato dalla direttrice della fotografia, Johanna Heer, un'austriaca trasmigrata a New York, studiosa e teorica del colore, rivelatasi al pubblico della cinefilia d'oltreoceano con Subway riders di Amos Poe. Una videoartista che ha inquadrato le revulsioni di un quotidiano privo d'amore nella rete metallica delle tonalità fredde: rossi, viola, verdi, blu, quando virati duramente verso un'evidenza iperrealistica, quando invece compressi su una misura asettica ed omogeneizzante. Facile pensare al post-moderno, che al cinema, quanto al colore, si è venuto ad es. impaginando nella contagiosa tavolozza lavorata da Housselot per Diva di Jean - Jacques Beineix. Più scoperto (nel caso di Adlon) il richiamo a Fassbinder, ma anche più appropriato: giacché è proprio nel suo cinema che la violenza del moderno ha incontrato il bric-à-brac di oggetti e cromie tra loro in contrasto, spinti sino al limite del kitsch. Un po' come tutto quello che si ritrova in Sugarbaby: la metropolitana, le scale mobili, gli interni spenti, i casermoni delle enclavi periferiche, tutto reso con quei modi forti come la stessa vicenda e che danno forza al racconto filmico. Anche la storia della grassona cinquantenne che si abbandona a una passione romantica ed adolescenziale per un tizio che ha la metà dei suoi anni ma che la ricambia, sembra ritagliarsi pari pari negli scampoli di un universo irridente e ossessivo, quale fu quello di Fassbinder. Si potrebbe ricordare Angst essen Seele auf, con l'incontro tra il turco e la matura signora tedesca.
Il punto di maggior contatto non è tuttavia tematico, nel senso stretto del plot. In comune con Fassbinder, ma in generale in comune con il cinema tedesco dell'ultimo ventennio, lo sguardo di Adlon - con diverse varianti e alcune licenze - ordina anch'esso l'assetto della realtà nei termini di una opprimente normalità. Anche nel caso di questo ispirato film d'autore (così Cosulich in una recensione per RaiTre), la lezione della cinepresa imprime indelebile il marchio dello squallore quotidiano, persuasivamente prospettandocelo nella somma degli atti sempre uguali: la routine del lavoro, il percorso, la bulimia, l'isolamento, ecc.
L'irrealtà del presente si angola quasi fenomenologicamente sull'analisi di una persona comune la cui durezza, crudamente meccanizzata sul proscenio metropolitano ed emblematizzata nel corpo pesante e sgraziato, viene appena corretta all'inizio dalla pietà che a tratti lei prova per le salme che pulisce e che veste. Ma come in tante altre opere di questa ultima stagione del cinema e della cultura tedesca, i racconti in persona dei diversi personaggi (qui la teutonica cinquantenne; in Fassbinder i marginali e i trasgressivi; in Herzog i visionari; nella von Trotta l'ipersensibilità femminile) possiedono la valenza e lo spessore di un destino che è sovraindividuale.
Ciò accade anche in Sugarbaby, nella prima parte e in generale nello sfondo che lo stile dei film ora inquadra espressionisticamente ora ritaglia iperrealisticamente. Se questo è il livello della realtà, alienante e per ciò stesso deformata; e se a tale situazione un Fassbinder reagisce con una provocante e sarcastica disperazione, Percy Adlon si' abbandona alla tenerezza e alle risorse di una fantasia umanizzata e solidale.
La sua Marianne non si lascia distruggere da quelli che sono i canoni della cultura corrente. Al modello vitalista ella oppone sia pure involontariamente la frequentazione della morte; al cliché giovanilistico e dietetico l'età rimarchevole e una stazza fisica alquanto voluminosa. Il muro della solitudine non s'infrange da solo con l'inattesa apparizione di Huber, ma è pur sempre il caso a determinare l'insorgere del processo.
Adlon è molto convincente allorquando delinea i cambiamenti della donna: cambiamenti prima psicologici e poi fisici; del pari è icastico se traduce la fermezza del carattere tedesco nel progetto d'amore, che tiene in conto anche le debolezze del giovane, in primo luogo quella mancanza d'affetto confermata dal suo amore per i dolci.
Gli anelli narrativi al cui interno possono spiegarsi il carattere e il senso di una così straordinaria passione ci sono tutti, mostrati nel racconto e non invece sovrammessi. Per incredibile che sia, Marianne è leggerissima nella sua opulenza (c'è a riprova la sequenza dei rock), delicata negli affetti e nel sesso, spiritosa e imprevedibile. Scopre l'amore e il rispetto di sé attraverso l'amore per un altro.
Ma infine, lo chassis sul quale si distende il corpo centrale della narrazione - il rapporto tra i due - diventa un po' il livello della favola che s'oppone al livello della realtà. Meglio, il risarcimento che il cinema e l'immaginazione riescono a produrre rispetto alle standardizzazioni del quotidiano.
Cade giusto qui la disformità da Fassbinder: poiché dove lui metteva al galoppo amarezza e sarcasmo, provocazione e ironizzazione del discorso estetico, Adlon chiama ancora in causa i valori positivi, a cominciare da quelli artistici. È infatti l'arte a rendere possibile l'“amour fou” di Marianne. Il continuo slittamento che in Sugarbaby si modella dal piano della realtà a quello dell'invenzione, che contro la prima appunto si determina, giunge a disvolgersi nella tipologia dei personaggi: deboli, come anche lo Huber del film, e poveri, oppure vittime, che però hanno dentro una forza morale (i fratelli Scholl di Lezte fünf Tage) e umana (Céleste) e creativa (Walser), da cui si sprigiona la loro inusuale ma ugualmente abbacinante bellezza. Quella stessa che affascina il regista e che lo spettatore sorpreso sente nella metamorfosi di Marianne. Da tale incantamento discende intera la possibilità di sospensione della catena del tempo. La favola diviene realtà e lo sguardo dell'autore si scioglie da ogni predeterminazione abbandonandosi alle sue immaginazioni, inseguite e accarezzate nella loro impossibile pienezza e appunto fatte possibili dallo sguardo della cinepresa. Da ciò, in Sugarbaby, le “volute sgrammaticature”, le “ondeggianti circonvoluzioni”, le “inquadrature tremolanti” che denotano la trepida e vitale meraviglia del regista di fronte all'incanto della sua materia.
Il finale - un brusco e enigmatico ritorno alla realtà - non è tuttavia drammatico. Certo, non sappiamo se Marianne si trovi nella metropolitana per uccidersi, o per ricominciare. Ma la scelta di battersi comunque (nella nostra lettura e nel nostro desiderio la persona cui si rivolge non può che essere Huber) sta in tono con il carattere del film. Al quale - come s'è capito - gli interpreti danno un contributo imprescindibile. Non solo la giostrante e clownesca Marianne Sägebrecht, ma anche Eisi Gulp, che sa obliterare la ovvietà dell'avvenenza fisica con la “grazia infantile di un saltimbanco semplice e spontaneo” (acuta notazione, come quelle del precedente capoverso, dovuta a Fabio Bo, vedi “Il Messaggero” del 27 gennaio 1988).
(Gualtiero De Santi, www.wlaciccia.it)
L'antefatto di Sugarbaby è l'incontro tra il regista e l'interprete femminile, Marianne Sägebrecht, un personaggio molto noto negli ambienti artistici di Monaco quale animatrice nel quartiere di Schwabing di una singolare compagnia, l'Opera Curiosa, formata da cantanti, saltimbanchi, attori teatrali, travestiti, mimi. Adlon la vide una prima volta nella totale immobilità dentro una piscina di un albergo di Deggendorf, dove s'era recato a girare una scena per un film televisivo (questo del rapporto solitario con l'acqua, con le relative implicazioni psicoanalitiche, torna anche in Sugarbaby). Ebbe poi modo di notarla di nuovo in una sfrenata performance di rock and roll su un palcoscenico. E dalle sovrapposte e solo in apparenza contrastanti immagini dell'attrice che deriva l'idea del film (tuttavia coadiuvato da un racconto di un'amica su una signora divenuta all'istante bellissima pronubo l'amore per un tranviere). L'altro tassello determinante dell'operazione è il contributo dato dalla direttrice della fotografia, Johanna Heer, un'austriaca trasmigrata a New York, studiosa e teorica del colore, rivelatasi al pubblico della cinefilia d'oltreoceano con Subway riders di Amos Poe. Una videoartista che ha inquadrato le revulsioni di un quotidiano privo d'amore nella rete metallica delle tonalità fredde: rossi, viola, verdi, blu, quando virati duramente verso un'evidenza iperrealistica, quando invece compressi su una misura asettica ed omogeneizzante. Facile pensare al post-moderno, che al cinema, quanto al colore, si è venuto ad es. impaginando nella contagiosa tavolozza lavorata da Housselot per Diva di Jean - Jacques Beineix. Più scoperto (nel caso di Adlon) il richiamo a Fassbinder, ma anche più appropriato: giacché è proprio nel suo cinema che la violenza del moderno ha incontrato il bric-à-brac di oggetti e cromie tra loro in contrasto, spinti sino al limite del kitsch. Un po' come tutto quello che si ritrova in Sugarbaby: la metropolitana, le scale mobili, gli interni spenti, i casermoni delle enclavi periferiche, tutto reso con quei modi forti come la stessa vicenda e che danno forza al racconto filmico. Anche la storia della grassona cinquantenne che si abbandona a una passione romantica ed adolescenziale per un tizio che ha la metà dei suoi anni ma che la ricambia, sembra ritagliarsi pari pari negli scampoli di un universo irridente e ossessivo, quale fu quello di Fassbinder. Si potrebbe ricordare Angst essen Seele auf, con l'incontro tra il turco e la matura signora tedesca.
Il punto di maggior contatto non è tuttavia tematico, nel senso stretto del plot. In comune con Fassbinder, ma in generale in comune con il cinema tedesco dell'ultimo ventennio, lo sguardo di Adlon - con diverse varianti e alcune licenze - ordina anch'esso l'assetto della realtà nei termini di una opprimente normalità. Anche nel caso di questo ispirato film d'autore (così Cosulich in una recensione per RaiTre), la lezione della cinepresa imprime indelebile il marchio dello squallore quotidiano, persuasivamente prospettandocelo nella somma degli atti sempre uguali: la routine del lavoro, il percorso, la bulimia, l'isolamento, ecc.
L'irrealtà del presente si angola quasi fenomenologicamente sull'analisi di una persona comune la cui durezza, crudamente meccanizzata sul proscenio metropolitano ed emblematizzata nel corpo pesante e sgraziato, viene appena corretta all'inizio dalla pietà che a tratti lei prova per le salme che pulisce e che veste. Ma come in tante altre opere di questa ultima stagione del cinema e della cultura tedesca, i racconti in persona dei diversi personaggi (qui la teutonica cinquantenne; in Fassbinder i marginali e i trasgressivi; in Herzog i visionari; nella von Trotta l'ipersensibilità femminile) possiedono la valenza e lo spessore di un destino che è sovraindividuale.
Ciò accade anche in Sugarbaby, nella prima parte e in generale nello sfondo che lo stile dei film ora inquadra espressionisticamente ora ritaglia iperrealisticamente. Se questo è il livello della realtà, alienante e per ciò stesso deformata; e se a tale situazione un Fassbinder reagisce con una provocante e sarcastica disperazione, Percy Adlon si' abbandona alla tenerezza e alle risorse di una fantasia umanizzata e solidale.
La sua Marianne non si lascia distruggere da quelli che sono i canoni della cultura corrente. Al modello vitalista ella oppone sia pure involontariamente la frequentazione della morte; al cliché giovanilistico e dietetico l'età rimarchevole e una stazza fisica alquanto voluminosa. Il muro della solitudine non s'infrange da solo con l'inattesa apparizione di Huber, ma è pur sempre il caso a determinare l'insorgere del processo.
Adlon è molto convincente allorquando delinea i cambiamenti della donna: cambiamenti prima psicologici e poi fisici; del pari è icastico se traduce la fermezza del carattere tedesco nel progetto d'amore, che tiene in conto anche le debolezze del giovane, in primo luogo quella mancanza d'affetto confermata dal suo amore per i dolci.
Gli anelli narrativi al cui interno possono spiegarsi il carattere e il senso di una così straordinaria passione ci sono tutti, mostrati nel racconto e non invece sovrammessi. Per incredibile che sia, Marianne è leggerissima nella sua opulenza (c'è a riprova la sequenza dei rock), delicata negli affetti e nel sesso, spiritosa e imprevedibile. Scopre l'amore e il rispetto di sé attraverso l'amore per un altro.
Ma infine, lo chassis sul quale si distende il corpo centrale della narrazione - il rapporto tra i due - diventa un po' il livello della favola che s'oppone al livello della realtà. Meglio, il risarcimento che il cinema e l'immaginazione riescono a produrre rispetto alle standardizzazioni del quotidiano.
Cade giusto qui la disformità da Fassbinder: poiché dove lui metteva al galoppo amarezza e sarcasmo, provocazione e ironizzazione del discorso estetico, Adlon chiama ancora in causa i valori positivi, a cominciare da quelli artistici. È infatti l'arte a rendere possibile l'“amour fou” di Marianne. Il continuo slittamento che in Sugarbaby si modella dal piano della realtà a quello dell'invenzione, che contro la prima appunto si determina, giunge a disvolgersi nella tipologia dei personaggi: deboli, come anche lo Huber del film, e poveri, oppure vittime, che però hanno dentro una forza morale (i fratelli Scholl di Lezte fünf Tage) e umana (Céleste) e creativa (Walser), da cui si sprigiona la loro inusuale ma ugualmente abbacinante bellezza. Quella stessa che affascina il regista e che lo spettatore sorpreso sente nella metamorfosi di Marianne. Da tale incantamento discende intera la possibilità di sospensione della catena del tempo. La favola diviene realtà e lo sguardo dell'autore si scioglie da ogni predeterminazione abbandonandosi alle sue immaginazioni, inseguite e accarezzate nella loro impossibile pienezza e appunto fatte possibili dallo sguardo della cinepresa. Da ciò, in Sugarbaby, le “volute sgrammaticature”, le “ondeggianti circonvoluzioni”, le “inquadrature tremolanti” che denotano la trepida e vitale meraviglia del regista di fronte all'incanto della sua materia.
Il finale - un brusco e enigmatico ritorno alla realtà - non è tuttavia drammatico. Certo, non sappiamo se Marianne si trovi nella metropolitana per uccidersi, o per ricominciare. Ma la scelta di battersi comunque (nella nostra lettura e nel nostro desiderio la persona cui si rivolge non può che essere Huber) sta in tono con il carattere del film. Al quale - come s'è capito - gli interpreti danno un contributo imprescindibile. Non solo la giostrante e clownesca Marianne Sägebrecht, ma anche Eisi Gulp, che sa obliterare la ovvietà dell'avvenenza fisica con la “grazia infantile di un saltimbanco semplice e spontaneo” (acuta notazione, come quelle del precedente capoverso, dovuta a Fabio Bo, vedi “Il Messaggero” del 27 gennaio 1988).
(Gualtiero De Santi, www.wlaciccia.it)